Era il 16 aprile.
Una stanza di un
commissariato, quello di Opicina, che sovrasta dall'alto il golfo di
Trieste.
Una stanza ed una donna.
Tanti pensieri possono
vagare nella mente dell'essere umano, probabilmente il pensiero di
essere reclusa al CIE di Bologna o di vivere una ingiustizia
sostanziale, deve averla indotta al gesto.
Quel gesto sottovalutato
per anni, di cui oggi tanto di parla per ovvi motivi di
strumentalizzazione politica e mediatica.
Il suicidio.
Le prime indiscrezioni
parlavano di una lunga immensa agonia.
Minuti di lotta tra la
vita e la morte.
Un monitor del
commissariato trasmetteva le immagini di quel gesto, nessun operatore
si è accorto di nulla.
Morte è fatta.
In Città, con una
lentezza disarmante si inizia a parlare di questa tragedia.
Qualche perplessità,
qualche indignazione, qualche considerazione, qualche e qualche ma
per un mese poco o nulla si è mosso.
Nello stesso tempo
accadono altri eventi, come l'aggressione di stampo fascista subita
da un ragazzo nei pressi del Viale XX settembre di Trieste, come
l'arresto di Giorgio in Palestina operato dall'esercito israeliano, e
la sua contestuale espulsione per 10 anni, per non aver fatto nulla,
o perquisizioni subite da un compagno, Luca, per una semplice
manifestazione “non” autorizzata, un pretesto per colpire e
punire chi con la lotta dice no, o per il caso dei compagni che il 22 ottobre
presso il tribunale di Trieste saremo processati con rito immediato,
senza nemmeno udienza preliminare, con l'accusa di "imbrattamento", per aver affisso quattro manifesti del
Collettivo Tazebao sotto la sede dell'Inps in via Sant'Anastasio, il
cui contenuto verteva sulla controinformazione e denuncia rispetto alla
celebrazione ufficiale del 10 febbraio.
Ed ancora qualche
considerazione, qualche dibattito, qualche intervento in rete o sulla
stampa ma poco o nulla.
Prigionieri del tanto
fare, o poco fare, prigionieri della rete, o di quel senso di
sconforto che ti fa sentir debole e rendere qualsiasi gesto di
protesta inutile.
Si doveva scendere in
piazza, si doveva manifestare la così detta indignazione per tutti
questi fatti.
Io come tanti, mi reputo
responsabile di questo poco fare, alla fine bastava poco.
E questo poco alla fine,
anche se con un comprensibile ritardo, è arrivato.
Il pretesto è dato dalle
indagini mosse dalla Procura di Trieste in relazione alla morte della
donna ucraina avvenuta al commissariato di Opicina. Si indaga sul
funzionario responsabile dell'Ufficio immigrazione locale.
Ed emergono fatti a dir
poco inquietanti. E' sottoposto ad una perquisizione
Si apprende dalla stampa
locale che sarebbero stati trovati durante la perquisizione, una
vecchia sciabola, un fermacarte con impresso il fascio littorio e un
piccolo cartello su cui, accanto all’indicazione “Ufficio
epurazione”, era stampata la faccia di Benito Mussolini. E tanto
altro ancora.
Ed ecco che iniziano ad
arrivare lettere rabbiose al principale giornale locale, sul Piccolo
di Trieste, dove emerge da un lato la non comprensione di come sia
possibile che nei weekend non sia in servizio un giudice che possa
convalidare i decreti di espulsione e come sia possibile, come
sostiene la Questura, che gli stranieri, in quelle ore, non
possono essere liberati, invece per la Procura non possono essere
nemmeno trattenuti.
Né liberati, né
trattenuti.
Eppure la donna è morta,
uccisa dalla burocrazia, uccisa dalla solitudine di una stanza che ha
negato ogni senso di umanità.
Qualcosa si è rotto tra
la Procura di Trieste e la Questura. Forse qualcosa si è rotto anche
all'interno della stessa Questura. Di norma le forze di polizia, così
come i vari ordini professionali, sono caratterizzati da un forte
senso di appartenenza, senso di appartenenza che viene prima di ogni
denuncia di manifesta ingiustizia, vedi il caso del G8 di Genova che
insegna tanto sul punto. Qualcuno probabilmente dopo il caso della
donna morta ed uccisa da questo sistema nefasto repressivo
burocratico, avrà detto basta.
Basta alla
considerazione, anche solo in via dialettica, dell'ufficio
immigrazione come ufficio epurazione, basta alle
simpatie manifeste per quel fascismo che ha ucciso ogni dignità, che
ha ucciso uomini e donne, che ha recato e reca ancora oggi immense
sofferenze. Non è questa la Polizia,non deve essere questa la
Polizia. E quel qualcuno o qualcuna, collaborando con la Procura
della Repubblica ha deciso di porre fine a situazioni probabilmente
ben note e conosciute, ma taciute per ovvi motivi.
Qualcuno ha deciso che lo
spirito di appartenenza può venire meno.
Certamente la Questura
vivrà momenti di tensione, ma è cosa da poco conto, rispetto ad una
vita che è venuta meno.
Alina, questo il nome
della donna, è stata uccisa da quella solitudine repressiva di uno
Stato che è stato.
E la città ora si
sveglia.
Alcune realtà di
movimento cittadine realizzano una lettera infuocata che gira per
mail, si richiede l'adesione, si organizza una manifestazione sotto i
locali della Questura di Trieste , invitando la cittadinanza tutta
martedì 15 maggio alle 17 per manifestare, come si legge
testualmente, questa repulsione, per porre delle domande precise
al Questore dal quale pretendere delle risposte precise, per
pretendere che Baffi non resti a dirigere l'ufficio immigrazioni. Per
dire forte che questo “sistema” deve cessare immediatamente, che
ci ripugna essere i guardiani armati della Fortezza Europa, nessun
essere umano è illegale, che banditi devono essere il razzismo, i
sequestri e la ferocia.
E
concludersi con un : Noi restiamo umani.
Già
restiamo umani in un tempo dalla viva disumanità.
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