La celebrazione del fascismo della passeggiata di Ronchi di D'Annunzio e l'occupazione di Fiume

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Mio caro compagno, Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d'Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile. Riassumete l'articolo !! che pubblicherà la Gazzetta del Popolo e date intera la fine . E sostenete la causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio Non sarà stato forse un fascista dichiarato, D'Annunzio, certo è che non fu mai antifascista, era lui che aspirava a diventare il duce d'Italia e la prima cosa che fece, all'atto della partenza da Ronchi per andare ad occupare Fiume, fu quella di scrivere a Mussolini, per ottenere il suo sostegno. Perchè D'Annunzio ne aveva bisogno. Il fascismo fu grato a D'Annunzio, per il suo operato,  tanto che si adoperò anche per il restauro e la sistemazione della casa dove nacque D'Annunzio e morì la madre. E alla notizia della morte, avvenuta il 1 marzo del 193

Tra avversità e giudizi nei confronti degli "slavi" in primavera a Trieste di Quarantotti Gambini

Tanti sono gli scrittori, che in Italia, vengono coltivati, coccolati, e guai ad osare a criticarli, perchè diventati punto fermo di una sorta di nazionalismo ottocentesco che alla fine dei conti cosa ha prodotto di costruttivo, benefico, per il nostro mondo e per la nostra società? Pensiamo agli insulti di Slataper nei confronti dello sloveno, nel suo sopravalutato ogni oltre ragionevole comprensione il mio Carso, e che dire del disprezzo di D'Annunzio nei confronti del croato?  
Veniamo a Pier Antonio Quarantotti Gambini. Qualcuno ha lamentato che questo scrittore in Italia sia stato dimenticato troppo in fretta. Non è detto che ciò sia stato un male, anche se nelle scuole viene studiato con un giudizio critico inesistente, perchè nei confronti di alcuni autori, punti chiave per le questione nazionalistiche nostrane, nessuna critica deve essere osata. Il suo primo romanzo fu la Rosa Rossa, ultimato negli anni '30, noto anche per aver diretto la storica radio Venezia Giulia, quel ruolo della radio che diventerà unico strumento di collegamento e di speranza con l'Occidente che troveremo in quell'incredibile se non sconcertante testo, Primavera a Trieste.  
Un testo dove racconta come una sorta di diario i 42 giorni di "occupazione" Jugoslava di quel maggio del '45 che in questa città di confine italiana sembrano essere stati un vero incubo, di gran lunga peggio e non paragonabile, all'occupazione nazista durata dal settembre del '43 fino al primo maggio del '45.
Un testo farcito di giudizi ed avversità sconcertanti che ne minano presumibilmente l'obiettività. Ad esempio più di una volta afferma nel suo testo, quando descrive con gran senso di fastidio le scritte che inneggiavano alla Jugoslavia ed in sloveno che "i triestini non possono neanche indignarsene perchè non conoscendo lo slavo non sono in grado di capire ciò che si va scrivendo sulle loro case". Sparisce in un colpo solo magistralmente lo sloveno autoctono di Trieste.  E come erano questi "liberatori" "slavi"? 
"C'è una differenza di statura, oltre che somatica e di costituzione che sorprende" rispetto ai "triestini". Come se a Trieste fossero arrivate ondate barbariche di alieni. "Ho sempre avuto l'impressione che gli jugoslavi fossero più alti, ma quelli che avevo presenti dovevano essere quasi tutti croati o dalmati o intellettuali. Questi sloveni della campagna- e qui posso constatarlo perchè ne ho per la prima volta alcune centinaia sotto gli occhi: uniformemente bassi e ossuti, biondicci e scabri, sembrano non cresciuti qui vicino ma di tutt'altri paesi, a paragone dei triestini che sono alti e baldi ( baldi anche ora nonostante le angosce di questi giorni). Questa differenza risalta ancor di più nelle ragazze. Le slovene di corporatura corta e muscolosa ( il fisico di tante servotte, pulitissime, oneste e formidabili lavoratrici e delle cosiddette "donne del latte"), sono esattamente l'opposto delle triestine, dai torsi slanciati e dalle gambe lunghe." Insomma quella che sarà la "processione di campagna" invaderà la città, un vero shock per quell'ambiente triestino di cui lo scrittore faceva parte. Ed ancora "Sloveni che continuano a sfilare con la stessa lentezza pacata che sembra quasi triste e non cantano" mentre i triestini avrebbero manifestato "reggendo il tricolore, quasi di corsa, e un inno proromperebbe da tutti i petti e le ragazze irruenti, infuocate sarebbero in testa".  

Questi sono solo alcuni dei passaggi che reputo emblematici per comprendere con quale animus è stato scritto un testo che ha ritrovato da poco tempo la ristampa. Quell'animus che sarà fondamentale per quella propaganda che caratterizzerà le vicende di Trieste, in quel difficile balletto tra Italia e Jugoslavia, di cui questo libro, sconosciuto alle nuove generazioni, probabilmente ha avuto un ruolo che andrà certamente indagato stante il peso di chi lo ha scritto e stante l'avversità e la ripetizione di giudizi governati da sentimenti che potremmo definire "italianissimi" nei confronti degli "slavi" che emergono con radicale chiarezza nelle circa 300 pagine di un testo che si conclude in questo modo : 
" L'Istria attende ed attenderà. Sino a quando?"


Marco Barone

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