Trasformare la casa natale di Tina Modotti, nel museo Tina Modotti, può essere una grande opportunità per Udine

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Tina Modotti è probabilmente più apprezzata all'estero che in Friuli. Semplicemente è a dir poco sconcertante che non esista praticamente quasi nulla dedicato a lei. C'è una sala dedicata a Tina Modotti in città, c'è un punto Modotti, che ospita dei quadri di artisti locali, a pochi passi dalla casa natale di Tina Modotti che è cercata più dai messicani, sudamericani che altro. Eppure in quella via affascinante a pochi minuti a piedi dal centro di Udine, in via Pracchiuso 89, c'è la casa natale di Tina, dove sorge una targa con le parole di Neruda che ne ricordano l'essenza. La facciata della casa è stata recentemente restaurata e l'edificio ospita l’asilo notturno “Il Fogolâr”   inaugurato il 4 settembre del 2006  ed ospita le persone senzatetto  ed è gestito dalla Caritas. All'interno vi si trovano delle stampe e copie di alcune fotografie di Tina. Sarebbe il minimo sindacale pretendere di trasformare la casa natale di Tina Modotti in un museo che possa ac...

Il prossimo passo del Governo sarà quello di spazzare via il sindacalismo di base ed autonomo?

L'articolo 39 della Costituzione recita: L'organizzazione sindacale è libera.  Libera di esistere, ma anche di non contare nulla. Questo è quello che vorrebbe il Governo, ovvero troncare ogni processo di dissenso, ogni “ostacolo” al decisionismo, affinché sia veramente la volta buona per l'affermazione dell'autoritarismo puro dopo la caduta del ventennio. Bisogna essere sbrigativi, bisogna essere veloci, dobbiamo semplificare, razionalizzare, che in linea di massima non sarebbe una dramma, ma nella realtà italiana invece lo è. Lo è perché è in corso l'accentramento pieno del potere, è in corso la demolizione del piccolo brutto e scomodo, penso alla “incentivata” soppressione dei piccoli Comuni del Friuli Venezia Giulia, cioè la maggioranza nella regione, anzi la quasi totalità della regione, destinati a diventare periferia di se stessi, annientando ogni processo di democrazia diretta, concreta e partecipata. Solo il grande deve essere bello, rappresentativo e riconosciuto. Perché il grande è più facile da governare, condizionare e controllare. Il piccolo può essere una scheggia che blocca gli ingranaggi della macchina. Il piccolo è ostacolo da sopprimere. Veloci, rapidi, come un treno ad altissima velocità, ma anche i treni ad altissima velocità rischiano di deragliare specialmente in un Paese che ha conosciuto il fascismo, combattuto il fascismo, l'autoritarismo e voluto la democrazia, quella reale non quella a parole. Si vuole emulare il modello sindacale tedesco, non unico, ma unitario, ma in verità unico, un sindacato che non sciopera praticamente mai, un sindacato che è più comodo e funzionale alle logiche del potere che a quelle dei lavoratori e delle lavoratrici. Non è una questione di piccoli e diffusi interessi da tutelare, è una questione di dissenso, critica e libertà associativa, di democrazia. Già le cose oggi funzionano in cattivo modo, pensiamo alla regolamentazione ferrea della legge in materia di scioperi, destinata ad essere rivista in via ancora più restrittiva, pensiamo ai non diritti non riconosciuti ad una miriade di lavoratori e lavoratrici iscritti al sindacalismo di base e, o autonomo, dalle assemblee, linfa vitale per un sindacato, alle bacheche e così via discorrendo, ma questo non basta. Non basta. Si vuole staccare la spina al sindacalismo di base ed autonomo, e probabilmente lo si farà colpendo l'unico elemento di sussistenza, la ritenuta sindacale, inibendo a questi la proclamazione del diritto di sciopero, ad esempio. E' allarme rosso, in tutti i sensi. Quello che non ha osato fare la destra, lo attua il nascente Partito della Nazione, che ha il volto del PD, ma un corpo eterogeneo nei nomi, ma omogeneo nella sostanza capitalista. Un tempo per lavorare e vivere e per non morir di fame dovevi essere iscritto al partito fascista, ora per avere i diritti si deve essere iscritti al Pd od essere complici del partito della nazione?  Chinarsi al decisionismo? Non ce ne faremo una ragione. 


Marco Barone

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