La
SENTENZA DELLA CORTE europea (Quarta Sezione) del 7 novembre 2013
farà certamente discutere. Come è noto la Convenzione relativa allo
status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil
des traités des Nations Unies, vol. 189, pag.150, n.2545 (1954)], è
entrata in vigore il 22 aprile 1954. Essa è stata completata dal
protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il
31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo:
la «convenzione di Ginevra»). Ai sensi dell’articolo 1, sezione
A, paragrafo 2, primo comma, della convenzione di Ginevra, il termine
«rifugiato» è applicabile a chiunque «nel giustificato timore di
essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua
cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o
le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede
la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la
protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e
trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali
avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole
ritornarvi». L’articolo 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»),
intitolato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare»,
prevede quanto segue:
«1.Ogni
persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2.Non
può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di
tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e
costituisca una misura che, in una società democratica, è
necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al
benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla
prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o
alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
L’articolo
14 della CEDU, intitolato «Divieto di discriminazione», così
dispone:
«Il
godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente
Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in
particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua,
la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine
nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la
ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».
L’articolo
15 della CEDU, intitolato «Deroga in caso di stato d’urgenza»,
recita come segue:
«1.In
caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la
vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle
misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione,
nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e acondizione
che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi
derivanti dal diritto internazionale.
2.La
disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo
2[, intitolato “Diritto alla vita”], salvo il caso di decesso
causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3[, intitolato
“Proibizione della tortura”], 4 §1[, intitolato “Proibizione
della schiavitù e del lavoro forzato”] e 7[, intitolato “Nulla
poena sine lege”].
(...)».
La
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
I
diritti che non possono costituire oggetto di deroga ai sensi
dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU sono sanciti agli
articoli 2, 4, 5, paragrafo 1, e 49, paragrafi 1 e 2, della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la
«Carta»).Ai sensi dell’articolo 2, lettere c) e k), della
direttiva, ai fini della stessa, si intende per:
«c)“rifugiato”:
cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere
perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione
politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova
fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di
tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese (…);
(…)
«L’esame
della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su
base individuale e prevede la valutazione:
a)di
tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al
momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda,
comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese
d’origine e relative modalità di applicazione;
b)della
dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal
richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di
subire persecuzioni (...);
c)della
situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente,
in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di
valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli
atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come
persecuzione (...);
Ora,
nel procedimento di cui alla sentenza in commento, X, Y e Z, nati
rispettivamente nel 1987, nel 1990 e nel 1982, hanno presentato
domande di permesso di soggiorno temporaneo (asilo) nei Paesi Bassi
il 1°luglio 2009, il 27 aprile 2011 e il 25 luglio 2010. A sostegno
delle loro domande hanno fatto valere che lo status di rifugiato
dev’essere loro riconosciuto per il fatto che essi hanno ragione di
temere una persecuzione nei loro rispettivi paesi d’origine a causa
della propria omosessualità. Essi hanno, in particolare, affermato
di essere stati oggetto, sotto diversi profili, a causa del loro
orientamento sessuale, di reazioni violente da parte delle loro
famiglie e dei loro rispettivi ambienti sociali o di atti di
repressione da parte delle autorità dei loro rispettivi paesi
d’origine.
Dalle
decisioni di rinvio risulta che, nei paesi d’origine di X, Y e Z,
l’omosessualità è perseguita penalmente. Così in Sierra Leone
(causa C 199/12), ai sensi dell’articolo 61 della legge del 1861
sui reati contro la persona (Offences against the Person Act 1861),
gli atti omosessuali sono soggetti ad una pena detentiva da un minimo
di dieci anni all’ergastolo. In Uganda (causa C 200/12), ai sensi
dell’articolo 145 del codice penale del 1950 (Penal Code Act 1950),
chi è giudicato colpevole di un reato descritto come «conoscenza
carnale contro le leggi di natura» è punito con una pena detentiva
che può arrivare all’ergastolo. In Senegal (causa C 201/12), ai
sensi dell’articolo 319.3 del codice penale (Code pénal)
senegalese, una persona riconosciuta colpevole di atti omosessuali
dev’essere condannata ad una pena detentiva da uno a cinque anni e
ad una sanzione pecuniaria compresa tra 100.000 franchi CFA (BCEAO)
(XOF) e 1500000XOF (all’incirca tra EUR150 e EUR2000).
La
Corte di Giustizia europea rileva che “Ciò considerato, la mera
esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti
omosessuali non può essere ritenuta un atto che incide sul
richiedente in maniera così rilevante da raggiungere il livello di
gravità necessario per ritenere che detta qualificazione penale
costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1,
della direttiva”.
Ed
ancora che “ La pena detentiva comminata da una disposizione
legislativa che, come quelle di cui ai procedimenti principali,
sanziona gli atti omosessuali può invece, di per sé, costituire un
atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della
direttiva, purché essa trovi effettivamente applicazione nel paese
d’origine che ha adottato una simile legislazione”.
Dunque
“Tenuto conto del complesso delle suesposte considerazioni, occorre
rispondere alla terza questione sollevata in ciascuno dei
procedimenti principali dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1,
della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo
2, lettera c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso
che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non
costituisce, di per sé, un atto di persecuzione. Invece, una pena
detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente
trovi applicazione nel paese d’origine che ha adottato una siffatta
legislazione dev’essere considerata una sanzione sproporzionata o
discriminatoria e costituisce pertanto un atto di persecuzione”.
Invece
“L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva
2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime
sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della
qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di
protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della
protezione riconosciuta, dev’essere interpretato nel senso che
l’esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi
in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo
specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali
persone devono essere considerate costituire un determinato gruppo
sociale”.
Quindi
è positivo certamente il fatto che emerga il concetto di gruppo
sociale, ma è altamente restrittivo il concetto che vuole la
realizzazione della persecuzione, da cui possa discendere
l'applicazione effettiva del diritto d'asilo,solo se alla previsione
legislativa, che reprima l'omosessualità, segua la diretta
applicazione della stessa con l'ammenda od il carcere.
Il
fatto che uno Stato, un Paese, abbia normato il reato di
omosessualità è un passo gravissimo, e solo questo andrebbe
sanzionato riconoscendo il diritto d'asilo, a prescindere dalla sua
applicazione o meno.
Ciò
perché quando tale reato viene normato, legittima a livello sociale
ed anche culturale le ovvie discriminazioni che matureranno nei
confronti di chi è omosessuale e che per forza di cose è tenuto a
nascondere a celare il proprio libero modo di essere, che per forza
di cose non è libero di vivere la propria vita, anche perché la
disposizione legislativa esiste e potrà sempre essere applicata.
Avrebbe
invece fatto bene la Corte di Giustizia europea ad interpretare la
sola mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli
atti omosessuali come idonea ad incidere sul richiedente in maniera
così rilevante da raggiungere il livello di gravità necessario per
ritenere che detta qualificazione penale costituisca una
persecuzione, perché è e non può che essere intesa la sola
previsione come una persecuzione per tutti gli effetti che ne
derivano.
Forse
i giudici farebbero bene a recarsi nei luoghi nei Paesi dove esistono
queste previsioni legislative anche se non pienamente attuate per
capire per vedere per conoscere le reali condizioni di vita di chi è
omosessuale.
A
volte uscire dalle proprie stanze, non limitarsi alla sola lettura di
codici e testi normativi, prima di sentenziare su questioni così
delicate, sarebbe utile e probabilmente più consono ad una giustizia
sociale che tarda ad essere semplicemente e pienamente giusta.
Commenti
Posta un commento