Quella lenta riscoperta delle proprie origini ricordando i caduti austroungarici contro la damnatio memoriae del nazionalismo italiano

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Timidamente, negli anni, son sorti dei cippi, delle targhe, dei monumenti, defilati o meno, con i quali ricordare ciò che dall'avvento del Regno d'Italia in poi in buona parte del Friuli è stato sostanzialmente cancellato dalla memoria pubblica, ma non ovviamente da quella privata. Un territorio legato all'impero asburgico, che ricorda i propri caduti italiani che hanno lottato per la propria terra asburgica. Nei ricordi  memorie delle famiglie che si son tramandate nel tempo è difficile raccogliere testimonianze negative di quel periodo, sostanzialmente si viveva tutti assieme, ognuno con le proprie peculiarità e l'irredentismo italiano era solo una minoranza di un manipolo di esagitati. Poi, come ben sappiamo, con la guerra, le cose son cambiate in modo terrificante, per arrivare alla dannazione della memoria che ha voluto cancellare secoli e secoli di appartenenza asburgica. Lentamente, questi cippi, targhe, dal cimitero di Ronchi, al comune di Villesse, a Lucinico,

Omosessualità ed il diritto d'asilo, una sentenza che farà discutere



La SENTENZA DELLA CORTE europea (Quarta Sezione) del 7 novembre 2013 farà certamente discutere. Come è noto la Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations Unies, vol. 189, pag.150, n.2545 (1954)], è entrata in vigore il 22 aprile 1954. Essa è stata completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «convenzione di Ginevra»). Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, primo comma, della convenzione di Ginevra, il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque «nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi». L’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), intitolato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare», prevede quanto segue:
«1.Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2.Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

L’articolo 14 della CEDU, intitolato «Divieto di discriminazione», così dispone:
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».

L’articolo 15 della CEDU, intitolato «Deroga in caso di stato d’urgenza», recita come segue:
«1.In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e acondizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.
2.La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2[, intitolato “Diritto alla vita”], salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3[, intitolato “Proibizione della tortura”], 4 §1[, intitolato “Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato”] e 7[, intitolato “Nulla poena sine lege”].
(...)».

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
I diritti che non possono costituire oggetto di deroga ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU sono sanciti agli articoli 2, 4, 5, paragrafo 1, e 49, paragrafi 1 e 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).Ai sensi dell’articolo 2, lettere c) e k), della direttiva, ai fini della stessa, si intende per:
«c)“rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese (…);
(…)
«L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:
a)di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione;
b)della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni (...);
c)della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione (...);

Ora, nel procedimento di cui alla sentenza in commento, X, Y e Z, nati rispettivamente nel 1987, nel 1990 e nel 1982, hanno presentato domande di permesso di soggiorno temporaneo (asilo) nei Paesi Bassi il 1°luglio 2009, il 27 aprile 2011 e il 25 luglio 2010. A sostegno delle loro domande hanno fatto valere che lo status di rifugiato dev’essere loro riconosciuto per il fatto che essi hanno ragione di temere una persecuzione nei loro rispettivi paesi d’origine a causa della propria omosessualità. Essi hanno, in particolare, affermato di essere stati oggetto, sotto diversi profili, a causa del loro orientamento sessuale, di reazioni violente da parte delle loro famiglie e dei loro rispettivi ambienti sociali o di atti di repressione da parte delle autorità dei loro rispettivi paesi d’origine.

Dalle decisioni di rinvio risulta che, nei paesi d’origine di X, Y e Z, l’omosessualità è perseguita penalmente. Così in Sierra Leone (causa C 199/12), ai sensi dell’articolo 61 della legge del 1861 sui reati contro la persona (Offences against the Person Act 1861), gli atti omosessuali sono soggetti ad una pena detentiva da un minimo di dieci anni all’ergastolo. In Uganda (causa C 200/12), ai sensi dell’articolo 145 del codice penale del 1950 (Penal Code Act 1950), chi è giudicato colpevole di un reato descritto come «conoscenza carnale contro le leggi di natura» è punito con una pena detentiva che può arrivare all’ergastolo. In Senegal (causa C 201/12), ai sensi dell’articolo 319.3 del codice penale (Code pénal) senegalese, una persona riconosciuta colpevole di atti omosessuali dev’essere condannata ad una pena detentiva da uno a cinque anni e ad una sanzione pecuniaria compresa tra 100.000 franchi CFA (BCEAO) (XOF) e 1500000XOF (all’incirca tra EUR150 e EUR2000).

La Corte di Giustizia europea rileva che “Ciò considerato, la mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali non può essere ritenuta un atto che incide sul richiedente in maniera così rilevante da raggiungere il livello di gravità necessario per ritenere che detta qualificazione penale costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva”.

Ed ancora che “ La pena detentiva comminata da una disposizione legislativa che, come quelle di cui ai procedimenti principali, sanziona gli atti omosessuali può invece, di per sé, costituire un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, purché essa trovi effettivamente applicazione nel paese d’origine che ha adottato una simile legislazione”.

Dunque “Tenuto conto del complesso delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla terza questione sollevata in ciascuno dei procedimenti principali dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, lettera c), della medesima, dev’essere interpretato nel senso che il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali non costituisce, di per sé, un atto di persecuzione. Invece, una pena detentiva che sanzioni taluni atti omosessuali e che effettivamente trovi applicazione nel paese d’origine che ha adottato una siffatta legislazione dev’essere considerata una sanzione sproporzionata o discriminatoria e costituisce pertanto un atto di persecuzione”.

Invece “L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, dev’essere interpretato nel senso che l’esistenza di una legislazione penale come quelle di cui trattasi in ciascuno dei procedimenti principali, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, consente di affermare che tali persone devono essere considerate costituire un determinato gruppo sociale”.

Quindi è positivo certamente il fatto che emerga il concetto di gruppo sociale, ma è altamente restrittivo il concetto che vuole la realizzazione della persecuzione, da cui possa discendere l'applicazione effettiva del diritto d'asilo,solo se alla previsione legislativa, che reprima l'omosessualità, segua la diretta applicazione della stessa con l'ammenda od il carcere.

Il fatto che uno Stato, un Paese, abbia normato il reato di omosessualità è un passo gravissimo, e solo questo andrebbe sanzionato riconoscendo il diritto d'asilo, a prescindere dalla sua applicazione o meno.
Ciò perché quando tale reato viene normato, legittima a livello sociale ed anche culturale le ovvie discriminazioni che matureranno nei confronti di chi è omosessuale e che per forza di cose è tenuto a nascondere a celare il proprio libero modo di essere, che per forza di cose non è libero di vivere la propria vita, anche perché la disposizione legislativa esiste e potrà sempre essere applicata.
Avrebbe invece fatto bene la Corte di Giustizia europea ad interpretare la sola mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali come idonea ad incidere sul richiedente in maniera così rilevante da raggiungere il livello di gravità necessario per ritenere che detta qualificazione penale costituisca una persecuzione, perché è e non può che essere intesa la sola previsione come una persecuzione per tutti gli effetti che ne derivano.
Forse i giudici farebbero bene a recarsi nei luoghi nei Paesi dove esistono queste previsioni legislative anche se non pienamente attuate per capire per vedere per conoscere le reali condizioni di vita di chi è omosessuale.
A volte uscire dalle proprie stanze, non limitarsi alla sola lettura di codici e testi normativi, prima di sentenziare su questioni così delicate, sarebbe utile e probabilmente più consono ad una giustizia sociale che tarda ad essere semplicemente e pienamente giusta.



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