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Una bellissima testimonianza dell'immenso scrittore irlandese, James Joyce, venne raccolta dal quotidiano nazionale la nuova Stampa Sera. Siamo nell'agosto del 1948, a sette anni di distanza dalla scomparsa di Joyce. L'inviato a Trieste incontra la signorina G. Viene presentata così. Qui, a Trieste, prima dell'altra guerra — dice piano piano — ebbi un professore d'inglese che m'insegnò pochissimo inglese. Si chiamava James Joyce. — Lo scrittore Irlandese? — Sì, era irlandese, e anche un bravo scrittore.
Inizia così la testimonianza della signorina G. Ricorda che lo scrittore indossava sempre dei guanti bianchi. "Qualche volta, vestiva tutto di grigio, dal cappello alle scarpe. Qualche altra, portava un gilet ricamato, a punto a giorno, di figure e di scene". Racconta di uno scrittore chiacchierone: "talvolta gli accadeva di cominciare a parlare e di non smettere più. Trovava argomenti per due e tre ore. Parlava di me, di una mia amica che prendeva lezione con me, di mia madre che s'era affacciata alla porta e subito ritirata, di mio padre di cui era giunta la voce, di tutti quei miei parenti e amici che egli vedeva in fotografia sulle pareti e sul tavoli. Joyce non li conosceva, ma ne parlava lo stesso. Talvolta, invece entrava nel salotto e si accendeva la sigaretta, diceva: Sentiamo, raccontatemi qualche cosa! . E siccome noi, imbarazzate, non dicevamo nulla, soffiava con irritazione sulla sigaretta accesa, e se ne andava con un tic all'angolo della bocca".
Ricorda della cotta che la sua amica si prese verso lo scrittore e del modo in cui la perse, a causa di un vizio che pare lo scrittore, avesse, quello di bere. La mia amica s'innamorò di lui; si diede a scrivere in inglese, a parlare in inglese, a trascurare tutto quanto non fosse inglese. Perdeva veramente la testa, Ma la madre la guarì. — Come? — Stia a sentire! Joyce soleva ubriacasi. Una sera cadde disteso sul pavimento del nostro salottino. La madre della mia amica c'impedì di sollevare il professore e, comunque, di aiutarlo. Joyce era ancora per terra. La mia amica, in ginocchio sul pavimento, con un fazzoletto in mano, proprio come un' umile serva che pulisce le mattonelle con uno straccio, osservò a lungo il viso del professore, la bolla di saliva che gli si gonfiava e sgonfiava tra le labbra, una mano guantata che pareva più che mai di stoffa e l'altra seminascosta sotto il gilet sbottonato, la pupilla sinistra luccicante come un pezzettino di vetro all'orlo della palpebra... Joyce rinvenne quando l'amore aveva lasciato da un minuto il cuore della sua scolara. Pareva che l'avesse fatto apposta, tanto si mostrò lieto di quello che era accaduto. In realtà, però, non lo aveva per nulla fatto apposta".
Ma narra anche di uno scrittore amante della sua Irlanda. "Ho dimenticato di dire che, una sera avanti, Joyce aveva cantato, con voce di falsetto, una graziosa canzone sull'Irlanda, Chiedeva per la sua terra libertà e indipendenza dagli inglesi; sia la musica che le parole erano sue" . E la sua Irlanda, Joyce, la vedeva ovunque. "La vedeva in molti oggetti, ma quasi sempre in un fermacarte di vetro che stava sul piccolo tavolo del nostro salotto. Joyce sollevava il fermacarte stringendolo ai lati con le palme, e vi guardava dentro attentamente." " Ecco l'Irlanda — diceva, — Dio, questa è l'Irlanda!".
Per poi concludere con i quaderni dove lo scrittore faceva nascere le sue opere. "La sua casa era piena di discepoli e di iniziati. Ogni tanto egli si lasciava sfuggire una frase con un'intonazione particolare ed i suoi discepoli si affrettavano a trascriverla sui quaderni. Le opere di Joyce nascevano su quei quaderni, in venti copie, perché i discepoli erano ventidue, dei quali due erano esentati dallo scrivere".
mb
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