C'era una volta Gorz. Gorizia, la città più tedesca del "nord est italiano"

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    Gorizia è oggi, a causa degli eventi del '900, conosciuta forse come la città più italiana, delle italiane, anche se la sua peculiarità discende dal passato asburgico, quello che affascina, quello che interessa i turisti, insieme alla questione dell'ultimo "muro" caduto che divideva Gorizia da Nova Gorica. A partire dal 1500 Gorizia conobbe la sua svolta, una città dove convivevano, senza ghettizzarsi, idiomi diversi, dove la cultura germanofona era rilevante, con l'ultimo censimento dell'Impero che arrivava a contare poco più di 3000 cittadini di lingua tedesca. Tedesco, sloveno, friulano, italiano. Il nome Gorizia, è un nome slavo, una città dallo spirito tedesco, di cui oggi si è praticamente perso pressoché ogni traccia. Salvo iniziative di qualche realtà associativa privata, che mantengono con impegno e passione viva la lingua tedesca a Gorizia e contributi da parte di alcuni storici e studiosi, in città si è assistito ad un vero e proprio annichilime

Prima guerra mondiale, dal cordoglio alla dichiarazione di guerra



Il 16 aprile, nel Parlamento europeo, di quella Europa che vorrebbe divenire Stati uniti d'Europa, come voluta per esempio dall'irredentista ma anche socialista, Ettore Ciccotti, si è discusso sulla prima guerra mondiale evidenziando tra le diverse cose che “pace e stabilità non devono mai essere considerate come acquisite” e nello stesso tempo hanno chiesto maggiore integrazione e rimarcato “l'importanza di combattere il nazionalismo per assicurare pace e sicurezza in Europa”.

Pace e sicurezza contro il nazionalismo. Il 29 giugno del 1914, il Ministro degli affari esteri italiano così si pronunciava alla Camera, in merito all'uccisione di Francesco Ferdinando Carlo Luigi Giuseppe d'Austria-Este: Compio il triste ufficio di comunicare alla Camera che ieri, a Sarajevo, cessava di vivere S. A. Imperiale Beale l'Arciduca ereditario Francesco Ferdinando. Egli, e Sua Altezza la Duchessa di Hohenberg, sua consorte, cadevano vittime di un esecrando attentato, contro di cui si solleva unanime l'indignazione di tutto il mondo civile, ora e sempre strettamente solidale nei sentimenti più. gentili e pia alti, che elevano e nobilitano l'animo umano. Tutti vediamo nell'alto suo senno uno dei più saldi presidi della pace e della calma operosa e fidente, che, nell'unità complessa, intellettuale, morale ed economica, del mondo moderno, è condizione essenziale di ogni progresso per tutti i popoli civili, e mezzo benefico e fecondo di concordia sociale”.

Approvazioni e condivisioni.
Passano i mesi, mutano gli eventi, in modo inevitabilmente nefasto, ed il 20 maggio del 1915 si svolgerà una seduta  chiave alla Camera , la quale conferendo al Re poteri straordinari in caso di guerra, de facto, sanciva l'effettiva entrata in guerra dell'Italia contro i propri alleati.

Il Presidente del Consiglio,nonché ministro dell'Interno, Salandra, presentò il disegno di legge che così era formulato:
« Il Governo del Re ha facoltà, in caso di guerra e durante la guerra medesima, di emanare disposizioni aventi valore di legge per quanto sia richiesto dalla difesa dello Stato, dalla tutela dell'ordine pubblico e da urgenti o straordinari bisogni della economia nazionale. Restano ferme le disposizioni di cui agli articoli 243 a 251 del Codice penale per l'esercito.
« Il Governo del Re ha facoltà di ordinare le spese necessarie e di provvedere con mezzi straordinari ai bisogni del Tesoro.
 « Il Governo del Re è autorizzato a esercitare provvisoriamente, in quanto non siano approvati per legge e non oltre il 31 dicembre 1915, i bilanci per le Amministrazioni dello Stato nell'esercizio 1915-16, secondo gli stati di previsione dell'entrata e della spesa (...)  nonché a provvedere i mezzi straordinari per fronteggiare le eventuali deficienze di bilancio derivanti da aumenti di spese o da diminuzioni di entrate.»

Un disegno di legge che conferiva poteri enormi al Re rendendo inutile o futile ogni attiva parlamentare. In parlamento prevalse l'idea che l'ultimatum del luglio del 1914 che l'Impero Austro-Ungarico dirigeva alla Serbia, annullava “d'un colpo gli effetti del lungo sforzo durato, violando il patto che a quello Stato” legava il Regno d'Italia, ben evidenziandosi che quell'atto mirava “ a turbare, in danno nostro, il delicato sistema di possessi territoriali e di sfere di influenza, che si era costituito nella penisola Balcanica”.

Dunque era chiaro l'intento non tanto difensivo ma di cogliere l'attimo per infliggere la coltellata alle spalle al proprio alleato per sfruttare situazioni strategiche che avrebbero condotto l'Italia a conquistare terre e territori ambiti dal più esasperato irredentismo. Che poi dovevano essere sacrificate milioni di persone, poco interessava. Per questo, ci sono sempre altari, cimiteri e medaglie.
Intanto il ministro degli affari esteri, in quella storica seduta, consegnava i documenti diplomatici riguardanti i rapporti fra l'Italia  e l'Austria-Ungheria dal 9 dicembre 1914 al 4 maggio 1915 e l'unica opposizione, al dibattito parlamentare, che emerse, fu solo quella di Turati.
Il quale ben evidenziò le contraddizioni di un Parlamento che sia pure per motivi non per tutti identici - era recisamente avverso a ogni politica di guerra. Dico a ogni politica di guerra che non fosse di difesa necessaria, nel significato il meno opinabile del vocabolo, nel suo significato più letterale: di assoluta, materiale, brutale necessità”.

Ma In Italia, il grido Viva l'Italia, non fu un grido, almeno in quel periodo rivoluzionario, come il Viva la Francia negli anni della Repubblica e della Convenzione, ma era un grido di guerra. Grido di guerra che doveva silenziare ogni protesta di pacifismo, ogni atto che andava contro la guerra. Chi protestava contro la possibilità dell'entrata in guerra dell'Italia, veniva automaticamente designato come “venduto e complice dello straniero ai danni dell'Italia”, diversi deputati interventisti incitavano alla violenza sia pubblica che privata contro i colleghi che erano contrari alla guerra, contro quelli che sostenevano che la neutralità dell'Italia sarebbe stata più consona alla pace, alla concordia, con cui intere generazioni per anni si riempivano la bocca.

Ci furono, anche se simbolici, assalti alla sede della Camera elettiva, ci furono lite di proscrizione, censure letterarie, venivano duramente represse le manifestazioni di popolo e di piazza contro la guerra, mentre quelle interventiste ebbero “ebbero franchigia dovunque”. Con 241 voti favorevoli e solo 74 contrari, la Camera approvava il « Conferimento al Governo del Re di poteri straordinari in caso di guerra ». La seduta terminò alle ore 19 del 20 maggio 1915, fra fragorosi e prolungati applausi, a cui partecipano anche le tribune, con grida entusiastiche e ripetute di Viva l'Italia! Viva l'Esercito! Viva l'Armata! Viva il Re!!

E quel caso di guerra, certamente non era casuale.
Una formula che voleva creare illusione, speranza di non intervento.
Una formula tanto retorica quanto cattiva e falsa.
Perché il tutto era stato già deciso e la Camera altro non doveva che formalizzare il passaggio di consegne dei poteri per sancire l'entrata in guerra dell'Italia e la sofferenza di milioni di persone.


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