Quella lenta riscoperta delle proprie origini ricordando i caduti austroungarici contro la damnatio memoriae del nazionalismo italiano

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Timidamente, negli anni, son sorti dei cippi, delle targhe, dei monumenti, defilati o meno, con i quali ricordare ciò che dall'avvento del Regno d'Italia in poi in buona parte del Friuli è stato sostanzialmente cancellato dalla memoria pubblica, ma non ovviamente da quella privata. Un territorio legato all'impero asburgico, che ricorda i propri caduti italiani che hanno lottato per la propria terra asburgica. Nei ricordi  memorie delle famiglie che si son tramandate nel tempo è difficile raccogliere testimonianze negative di quel periodo, sostanzialmente si viveva tutti assieme, ognuno con le proprie peculiarità e l'irredentismo italiano era solo una minoranza di un manipolo di esagitati. Poi, come ben sappiamo, con la guerra, le cose son cambiate in modo terrificante, per arrivare alla dannazione della memoria che ha voluto cancellare secoli e secoli di appartenenza asburgica. Lentamente, questi cippi, targhe, dal cimitero di Ronchi, al comune di Villesse, a Lucinico,

Scuola chiusa per carenza di bambini italiani. E' a questo che si arriverà?


Allora mettiamola così. Monfalcone, cittadina del nord est,  sconosciuta ai più oltre Cervignano, balzata negli ultimi anni agli onori della cronaca nazionale, e forse anche internazionale, sicuramente in Bangladesh, perchè diventata, suo malgrado, laboratorio politico di situazioni non certamente meravigliose che interessano principalmente i bengalesi, una delle comunità più rilevanti della città. Una città che vede le proprie sorti, di fasti, o di sorti nefaste, essere determinate dall'essere la città dei cantieri, nel senso che appartiene effettivamente ai cantieri navali, alla Fincantieri. Una città che non è mai riuscita ad imboccare una propria via indipendente ed autonoma. A staccare il proprio cordone ombelicale da quel sistema produttivo, che ne determina vita e morte e miracoli. D'altronde senza i cantieri navali Monfalcone non avrebbe probabilmente ragione di esistere. Da circa vent'anni la principale manovalanza ai cantieri di Monfalcone è "straniera" o per appalto e subappalto, i diretti son sempre meno. E ciò ha condizionato la fisionomia della città in una regione dove il calo demografico è catastrofico e tra 40anni destinata a scendere sotto il milione di abitanti in un Pianeta, il nostro, complessivamente sovrappopolato visto che siamo oltre 7 miliardi di persone. Siccome gli autoctoni son sempre meno, in una città profondamente "terronizzata" perchè di "terroni" o "cabibi" come si dice qui come il sottoscritto, siamo una marea, e non siamo certamente autoctoni anche se alcuni credono di esserlo, ma si può credere a tante favolette nella vita, la scriminante è italofono o non italofono.

Il dilemma amletico monfalconese è questo. 

E visto che le quote di bambini stranieri possono essere superiori rispetto a quelle degli italofoni, ben ricordando che l'italiano si impara da piccoli soprattutto nella scuola dell'infanzia, allora che si fa? Diamo i numeri. 45,35,30. No. Non da giocare al lotto. Poi se qualcuno vuole, magari sulla ruota di Venezia, faccia pure. Ma si tratta di percentuale, di fantomatici tetti, di una specie di quote latte ma adattate alla scuola e poi bon. Chi c'è, c'è, chi non c'è in questa percentuale può sempre andare di là, di là c'è sempre posto. Fino a quando poi non si ripropone la stessa situazione. Perchè accadrà. Fatto 30 perchè non fare 31?  Sorvolando sulla questione normativa, che va affrontata nelle dovute sedi, ponendo la questione solo dal punto di vista di buon senso nel contesto sociale attuale, non quello di vent'anni fa che non esiste più, che cazzarola si fa se i bambini italofoni a cui si deve dare la priorità in materia di iscrizione a detta di accordi incredibili, non saranno sufficienti per fare una classe "equilibrata"? E poi sul concetto di equilibrio apriti cielo. Per mantenere in vita una scuola? Si può sempre mettere un semplice avviso con scritto, scuola chiusa per carenza di bambini italiani. Semplice, no? Facciamo prima.

Marco Barone 

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